Il reato di femminicidio ridotto a un “no” che costa la vita, il disegno di legge che uccide due volte

Il reato di femminicidio rischia di svuotarsi, pezzo dopo pezzo, davanti agli occhi di un Paese che conta le donne uccise ogni anno e poi passa oltre.

Il governo ha presentato un disegno di legge, ora al vaglio della Commissione Giustizia al Senato, che porta la firma di Giulia Bongiorno e Susanna Campione. Dentro c’è un emendamento che potrebbe cambiare tutto: il femminicidio verrebbe riconosciuto solo se la donna viene uccisa per aver detto “no” al suo assassino.

Un “no” a una relazione, un “no” a una vita di sottomissione, un “no” a una libertà calpestata. Solo in quel caso, la legge parlerebbe di femminicidio. Il resto? Silenzio.

Eppure, a marzo 2025, quel reato era stato riconosciuto come autonomo, punibile con l’ergastolo, nei casi in cui l’odio verso le donne o la volontà di schiacciare la loro libertà diventavano motivo di omicidio. Era stato un passo avanti, finalmente. Ora, si torna indietro, svuotando le parole di senso, restringendo gli spazi in cui una donna può avere giustizia anche da morta.

Chi difende l’emendamento dice che le vecchie definizioni erano “troppo vaghe”. Ma la vaghezza vera è quella di un Paese che non sa dire con fermezza che la vita delle donne conta. Che la loro libertà non è una variabile da dibattito parlamentare.

Questa stretta riguarderebbe anche le aggravanti per maltrattamenti in famiglia, lesioni, stalking.

Un gioco di cavilli, sulla pelle delle donne, mentre su Google, tra i suggerimenti più cercati, appare ancora la domanda: “Cosa si rischia uccidendo una donna?”.

E no, il fatto che compaia al decimo posto non è un sollievo. È uno schiaffo.

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